Rileggere oggi il Jean Santeuil di Marcel Proust è un’esperienza totalizzante e incredibilmente attuale. Due passi rivelatori.
A marzo 2018 Theoria ha pubblicato una nuova edizione del Jean Santeuil di Marcel Proust con traduzione di Salvatore Santorelli e introduzione di Andrea Caterini).
Un libro magnifico nella sua incompletezza, un romanzo straripante di vita che Proust aveva nascosto in un cassetto e su cui poi sarebbe stata edificata l’enorme cattedrale della Recherche.
Ritrovato (e pubblicato) soltanto nel 1952, Jean Santeuil è un’opera sorprendente se si pensa che è stato scritto tra il 1895 e il 1902, ovvero quanto Proust aveva appena 25 anni.
Jean Santeuil è un romanzo in cui il tempo scorre vivo, potente. Un tempo che non è stato ancora perduto (e poi ritrovato) come invece sarà nella Recherche. Alcuni suoi passaggi poi sono sconcertanti per la loro attualità, come se fossero stati scritti domani (ne riporto un paio più sotto, i grassetti naturalmente sono miei).
Anche nel Jean Santeuil Proust si conferma dunque come uno dei più temerari esploratori delle profondità dell’animo umano. Leggere Proust oggi significa leggere noi stessi e la nostra contemporaneità perché, ça va sans dire, la tecnologia cambia ma l’uomo resta sempre lo stesso.
“Quelli che attribuiscono tanta importanza ai fatti…” (pp.358-359)
[…] Perché quelli che attribuiscono tanta importanza ai fatti si ritrovano a non tener più conto delle leggi. Il mondo appare loro in forma romanzata. Si credono sempre alla vigilia di un cambiamento di regime. “Siamo proprio messi male. Povera Francia! Dove finiremo? È un fatto senza precedenti! Preso ci saranno novità. È la fine della Repubblica”. Quell’ardore, quella sensibilità, che conservano inattivi, si liberano ogni volta che non hanno sforzi da compiere, e cioè in modo passivo, ad ogni diversa notizia. Ed escono accalorati da ogni seduta della Camera dicendo che le cose vanno male, per il bisogno di dirlo e di sentirselo dire, per manifestare la “loro inquietudine” e ingigantendo le cose al fine di parlarne. Quando il generale Goix parlò alla Corte di Assise “della trappola che Labori gli aveva teso”, Rustinlor e tutti i suoi amici furono scossi nella loro sensibilità trattenuta e carica di tensione. Siccome attraversavano la galleria di Harlay gridando alle persone “È un’infamia, è un’infamia, non si dice una cosa simile a un avvocato! Il Procuratore Generale non ha detto nulla. È gravissimo, è gravissimo, è gravissimo, è gravissimo”… è Jean chiedeva con dolcezza e sorridendo: “Ma perché è così grave?”. Rustinlor, urtato da quel sorriso, rispose con fare altezzoso: “Così grave? Siete buono voi, mio caro, i diritti della difesa, niente più, alla mercé dei generali, eh? Significa che già domani potrebbero esserci le dimissioni di tutto il collegio di difesa. E poi, se avete un processo? Per me non sarebbe un problema, non ho ricchezze. Ma se voi avete una contestazione di eredità…”. “Ma insomma, gli è sfuggita una frase, non era quello che intendeva dire”. “Sfuggita! Sfuggita! fra un genera dell’esercito francese, il vice-capo di Stato Maggiore dell’esercito e il collegio di difesa non possono sfuggire simili frasi”. E già una folla umana aumentava di minuto in minuto intorno ai due interlocutori, e Rustilnor alzava la voce, forse non tanto per l’effetto del caldo ma perché tutti lo sentissero, gesticolando, rispondendo alla domanda di uno sconosciuto, mentre i presenti fraternizzavano nella stessa febbre e i più informati acquisivano autorità sui curiosi, ben contenti di poterne eccitare l’emozione e appagarne l’avidità. […]
“I partigiani dell’onestà..” [pp. 318-319]
Chiunque tu sia, lettore, in qualsiasi paese o in qualsiasi capitale ti abbia posto la vita, nelle circostanze storiche di una vita politica o diplomatica, o in simili circostanze, ma che non verranno mai alla luce, di una vita esclusivamente privata, sono sicuro che tu ti sia schierato, foss’anche solo agli occhi di Dio, fra i partigiani dell’onestà e del puritanesimo o della carità e della tolleranza. Forse è una delle tue amiche d’infanzia, che ha tradito la fede coniugale, uno dei tuoi amici o la persona in vista e discussa che ama organizzare feste, a darti l’occasione di affermare la tua natura. Anche se la tua severa condotta è stata ispirata da un sincero orrore per il vizio, dev’essere sembrato crudele a uno dei tuoi cari che in quella stessa circostanza ha agito diversamente da te e che, in un’epoca di rilassate idee morali e di sovreccitata sensibilità nervosa, afferma che la crudeltà è il solo vizio che egli sia certo di avere il diritto di condannare. Mentre la sua condotta, se non ha altra origine che non sia la tenera pietà del suo cuore e un’indulgenza nei confronti degli altri compatibile con una grande severità verso se stesso (che forse l’ha addirittura ispirato all’indulgenza verso il prossimo, sperimentando quanto sia difficile conformarsi a quella severità) ti sembra il segno di una natura corrotta o forse un costume dettato da vantaggi materiali: il piacere di rimanere amico di quella donna che pur avendo commesso qualche errore è comunque spiritosa e affascinante e sa preparare cene davvero deliziose. Perché i giochi e i drammi della storia, così roventi se visti da lontano, sono composti degli stessi elementi delle nostre vite oscure, della sostanza stessa dell’universo. La storia è come l’analisi astronomica, quella scienza che dimostra la composizione delle stelle più lontane, perché esse contengono gli stessi elementi e gli stessi gas della strada che facciamo ogni giorno, del corpo in quale viviamo e delle ossa che un giorno riposeranno vicino a quelle di nostre madre. [….]
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