La Mano Negra in Colombia – Alice nel Paese delle guerriglie, di Ramon Chao, a cura di Silvia Ballestra, Edizioni Theoria, euro 8.50 – Citazioni
Ho girato molto la Colombia dopo la tournée del Cargo ’92 in America del Sud, l’anno scorso. Vedevo ovunque i binari, ma mai dei treni. Mi sono informato alla stazione centrale di Bogotà. Le locomotive funzionavano. Però, dal 1979, non ne era circolata nessuna. Centinaia di paesi che un tempo erano serviti dal treno vivono ormai reclusi, in balia del racket ora dell’esercito, ora dei narcotrafficanti, ora della guerriglia. Mi sono detto che dovevamo fare qualcosa. Ma che? Allora, per parlare di qualcos’altro oltre che del terrore in Colombia, ho immaginato questo treno, con uno spettacolo che doveva riconciliare i due nemici ereditari: il ghiaccio e il fuoco.
Ivan piange di brutto, come un bambino: “Questo è un momento importantissimo per la Colombai”, riesce ad articolare.
Forse, ma non è l’opinione del centinaio di esaltati che dovrà trasportare. Se ne sbattono di sapere a chi tutto questo potrebbe giovare. Sono lì per il sogno e le sue incoerenze; per loro, l’importante è condurre a buon fine un’avventura impossibile, suonare davanti a un pubblico vergine, comunicare con questa gente e basta. Non venitegli a dire che sono qualcosa come degli “ambasciatori della cultura”. Non tirano fuori la pistola – armi e coca sono le sole cose proibite a bordo -, ma non sopportano l’ipocrisia.
Ogni scalo è un incrocio di percorsi, più che uno scontro di culture. Gli in scoprono gli altri in uno stupore reciproco e fraternizzano in un festival della differenza.
Il pubblico si rifiuta di sloggiare. La gente resta lì fino a mezzanotte. È la prima volta, ci dice il capostazione, che tante persone venute dai dintorni si riuniscono in questa piazza senza che ci sia un morto.
Prima di separarci Diablito riprende la parola: “E attenzione: non esiste fare casino dopo lo spettacolo. Qui a Gamarra c’è la sterpaglia ma a Barranca saremo in un quartiere residenziale. E lì, non chiamano la polizia, ma i sicarios”.
In questo momento, a metà del percorso, bisogna arrendersi all’evidenza, il candore di questi ragazzi li permette di passare sopra a tutti i pericoli, come Alice nel Paese delle guerriglie.
Resta un grand dilemma: andiamo o no a Bogotà? Tutti convengono che il progetto è diventato un’impresa. Non importano i problemi, i gravi problemi interni, le numerose partenze (dei novantanove che erano partiti da Facatitivà cinque settimane fa, ci si ritrova adesso nello stesso posto in quaranta) e la nostra convinzione che non stiamo realizzando neanche la metà di quello che avevamo previsto e promesso: l’importante è che nei pueblos ci siano sempre folla, gioia, speranza e, soprattutto, la prova che possono fare festa insieme e in pace. Ci abbiamo messo un sacco di tempo a capirlo, ma adesso che è fatta nessuno potrà più fermarci.
– È questo che ti ha colpito di più?
– No, la miseria a Bogotà. Ci sono venuto varie volte ed è sempre uguale, dall’arrivo. L’orrore. Provi disgusto a ogni passo. A Bogotà sono stato in giro con i ragazzini che vengono sterminati. Per loro è un inferno. Malgrado ciò, sono più allegri di te. Hanno dodici anni, sono scoppiatissimi, non ce n’è uno che sia vergine. Quando la notte si addormentano, non sanno se il giorno dopo si sveglieranno. Un sacchetto di plastica sulla testa, li ficcano nel portabagagli di una macchina, li portano in montagna e là gli sparano!
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