Nel nome del Rugby. Storia di un bambino diventato campione e di una palla ovale, di Mauro Bergamasco e Francesca Boccaletto, Infinito Edizioni, 12 euro.
Mauro Bergamasco:
Provo a spiegartelo. Fino ai diciassette anni io conoscevo, al massimo, due o tre nomi di giocatori della Nazionale. Non avevo miti. Semplicemente, giocavo a rugby perché ne sentivo il bisogno, perché mi faceva stare bene. Punto. Non sognavo di diventare come questo o quel giocatore. Il sogno, come l’hai chiamato tu, si è costruito con il tempo, grazie a piccoli obiettivi a breve termine che mi sono sempre fissato, fin da ragazzino. Ho sempre voluto sfidare me stesso, per superare i miei limiti e migliorarmi.
Francesca Boccaletto:
La domenica andavo a vedere le partite al Tre Pini, non aspettavo altro. Vivevo l’attesa con trepidazione. Ho sempre amato il rugby, fin dalla più tenera età. Era sinonimo di festa, famiglia, papà Lucio, giochi e primi amori. Il Tre Pini è uno dei luoghi incantati della mia infanzia felice, un rifugio protetto, una bolla sospesa nel centro di Padova, in Prato della Valle.
Mauro Bergamasco:
La verità è che un rugbista è prima di tutto un uomo, non un eroe invincibile. E non deve affrontare e sconfiggere le proprie paure solo sul campo, sarebbe troppo facile. Il coraggio, la tenacia, l’impegno, la costanza sono richiesti anche nella vita vera. È lì che, quasi sempre, si gioca la partita più importante. Non ho paura del futuro, del fine carriera, per intenderci. Voglio semplicemente essere pronto e non voglio avere alcun rimpianto.
Francesca Boccaletto:
Conosco le regole, ma non potrei sostenere una lunga conversazione tecnica con giornalisti esperti. Ne uscirei, senza dubbio, sconfitta. Quello che, oggi, so del rugby è soprattutto il risultato di un percorso emozionale, di tutto quello che i miei occhi hanno visto e hanno letto e di tutte le storie che le mie orecchie hanno ascoltato. Di trentacinque anni di partite e di un’infinità di parole scritte o dette, da altri, per raccontarle.
Mauro Bergamasco:
Dicevo, mi piacciono quasi tutte le discipline. Ma penso non esista nulla come il rugby, ai miei occhi uno sport che, osservato attraverso il filtro dell’uomo con i baffi che mi ha cresciuta, da sempre si presenta, in sintesi, come un perfetto ossimoro: poesia be- stiale. Ed è, per questo, capace di commuovere e aggredire allo stesso tempo. In un campo da rugby, un osservatore attento potrà trovarci la magia, l’arte, la poesia, la danza e un pizzico di teatro dell’assurdo.
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