HOLLYWOOD BABILONIA, Kennet Anger (traduzione di Ida Omboni, Adelphi Edizioni, 1979). Citazioni.
Nel 1916 Aleister Crowley, l’inglese espertissimo di stupefacenti, passò per Hollywood e nei suoi appunti descrive così gli aborigeni: «I cinematografari, una banda di maniaci sessuali pieni di droga». Quelli sì erano tempi.
Se la McFarlan color cobalto di Wally Reid non scorrazzava più per il Sunset Boulevard, di macchine vistose per sostituirla ce n’erano a iosa: la Kissel rossa di Clara Bow, con cani chow in tinta, la Voisin da turismo di Valentino, costruita espressamente per lui, col tappo del radiatore a forma di cobra arrotolato, la Pierce-Arrow giallo canarino di Mae Murray o, più formale, la sua Rolls Royce bianca, con lo chauffeur in livrea e l’eterno Borzoi: la Packard violetta di Olga Petrova, e la Lancia di Gloria Swanson, foderata di pelliccia di leopardo. Erano i tempi in cui i boudoirs firmati da Joseph Urban erano impregnati di Shalimar, le creazioni parigine di paillettes da tremila dollari duravano lo spazio di un party, e il sesso veniva elargito tra splendori da Mille e una Notte; tempi in cui si incassavano soldi a sacchi e si spendevano a ceste, in cui l’alcool era clandestino, ma scorreva a fiume e qualunque stella poteva comprare senza difficoltà le chiavi di un paradiso artificiale.
Mae West arrivò a Hollywood con la fama di Ragazza per Male di Broadway, grazie a commedie come Sex, che l’avevano fatta finire nei guai, nonché in prigione per 8 giorni. Al suo arrivo, nel 1932, chiarì: «Io non sono una ragazzina di una cittadina che viene a lavorare in una grande città, sono una ragazzotta di una grande città che viene a lavorare in una cittadina».
Il genio ha infinte capacità di sopravvivenza. Chaplin sopravvisse ai processi e ad altre traversie e fece ancora quattro film. Uno di questi, MONSIEUR VERDOUX, per quanto disastroso dal punto di vista finanziario (fu proibito in molte città degli Stati Uniti), rifletteva buona parte della sua amarezza. E fu un capolavoro, uno dei più bei film che siano stati girati. E sarà visto e ammirato anche quando le Hedde e le Louelle saranno cadute nel dimenticatoio.
Quando il giudice le domandò come aveva fatto a perdere il pullover nella rissa del night Frances Farmes dichiarò che non sapeva nulla della faccenda e quando Sua Eccellenza si informò quanto beveva, rispose a voce sempre più alta: «Mi senta bene, io metto liquore nel latte, nel caffè, nel succo d’arancia. Cosa dovrei fare, secondo lei, morire di sete? Io bevo tutto quello che mi capita, compresa la benzedrina».
E nacque il Flamingo. Trovare materiale da costruzione di lusso era difficile, in tempo di guerra, ma niente paura: Bugsy si mise in contatto con il suo amico Luciano, a quei tempi in esilio nella sua patria italiana. Luciano riuscì a far uscire di straforo dall’Italia parecchi tonnellate di marmo di Carrara e le spedì a Siegel per il Flamingo. L’intenzione era di superare Miami in “miamità”, e Bugsy ci riuscì. Dalla sabbia del deserto sorse la metropoli del Supremo Cattivo Gusto. Siegel lanciò uno stile che prosperò fino a diffondersi come un’epidemia inarrestabile nel deserto di Mojave e continuò a diffondersi dopo la sua morte regalandoci la Las Vegas che tutti conosciamo e (forse) amiamo, un dissennato centro di raccolta per pescicani-playboy d’America.
Quando arrivarono gli anni Sessanta, la vecchia Hollywood era ormai morta.
Il Massacro di Tate, nel ’69, non fu per niente “vecchia Hollywood”. Quello che accadde nella casa rossa di Cielo Drive faceva pensare alla devastazione causata dalla caduta di un jet, l’aereo malefico di un pilota pazzo: Charles Manson – un automa computerizzato, un Deus ex pattumiera: le vite sprecate producono rifiuti, non tragedia.
Hanno restaurato l’insegna di Hollywood, ma solo le prime nove lettere – HOLLYWOOD. Hanno rinforzato i pali di sostegno e riverniciato la latta. Ma per caso o di proposito, le ultime quattro lettere (LAND) sono state abbattute, o forse sono cadute in rovina. La tredicesima, la D finale, non più lì a tentare una nuova Peg Entwistel. Le giovani generazioni di Hollywood High non sanno nemmeno che la scritta sul Mount Lee una volta diceva qualcosa di più del nome della città avvolta di smog che giace ai suoi piedi, una città che oggi fa tanto Miami. Così squinzia… Nei teatri vuoti della Columbia, dove le orecchie elettroniche di Harry Cohn erano eternamente in ascolto, oggi si gioca a tennis (fuori, sul Gower Gulch, il cartello VENDESI sbiadisce lentamente). Pure, a volte, quando i temporali e il vento hanno lavato il cielo, ritorna l’azzurro egizio sopra la pianura ancora folta di palme e di case alla spagnola, come l’isola di Catalina che si scorge appena sul nastro azzurro dell’orizzonte, torna sui grandi teatri antiquati, simili e millenarie tombe egizie – e noi riusciamo a capire che cosa attirava qui gli ambiziosi e gli incauti di tanto tempo fa.

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